ENZO BIANCHI

Corriere della Sera, 18 marzo 2012, di ENZO BIANCHI
Il pellegrinaggio rimane metafora della nostra stessa vita: un cammino aperto verso un futuro altro.
Il pellegrinaggio è uno dei fenomeni antropologici più antichi e diffusi, caratterizzato da una dimensione paradossale: il pellegrino lascia la propria terra, la propria casa per andare verso un “altrove”, percepito come luogo in cui poter ritrovare le proprie radici. Si mette in movimento cioè per ritrovare stabilità, saldezza. E questo in virtù di due elementi fondamentali e complementari propri al pellegrinaggio: da un lato il viaggio stesso, l’essere in movimento, l’iter che si compie, dall’altro il luogo a cui si desidera pervenire. Lo snodarsi del viaggio ha una dimensione di esodo, di uscita dal proprio mondo, di costante cambiamento di prospettive, di orizzonti, di panorami, un’inesauribile ricchezza di volti e paesaggi nuovi, un’alternanza del pensiero tra il luogo noto e certo che si è lasciato e l’ignoto cui si va incontro e del quale si sa solo che può offrirci nuova e duratura saldezza. La meta del pellegrinaggio deve dal canto suo essere chiara fin dalla partenza: “nessun vento infatti è favorevole alla nave che non sa a quale porto vuole approdare”, ammoniva già Seneca. E questa sua qualità di “meta”, di telos, di compimento, le viene proprio dal poter offrire al pellegrino che le corre incontro quel clima di anelito alla santità, quello “spazio sacro” di fronte al quale ci si toglie i calzari del viandante, quel “faccia a faccia” con la verità che fa esclamare “Dio è là”.
Ogni pellegrinaggio non inizia mai con la partenza, bensì molto prima: con il pensarlo e il prepararlo, cioè con il chiedersi perché intraprendere un pellegrinaggio e con la scelta della meta. Infatti, anche quando risponde all’adempimento di un voto o di un obbligo religioso, il pellegrinaggio ha sempre motivazioni profondamente personali. Cosa ci spinge a metterci in cammino nella modalità del pellegrinaggio? Forse il dolore che la situazione in cui ci si trova suscita in noi, il desiderio di una novità che ridia dinamica alla nostra vita, la voce di qualcosa o qualcuno che ci chiama, la curiosità di scoprire se le nostre radici hanno diramazioni insospettate. O ancora, in una dimensione più interiore: l’insostenibilità di una vita della quale si è smarrito il senso, l’intuizione di essere abitati da dinamiche assopite, il richiamo di una voce amica o la scoperta che una voce fino ad allora indistinta si è fatta chiara, la percezione di attingere linfa vitale da un humus sconosciuto.
Forse, per assurdo, il momento del pellegrinaggio in sé è quello del quale si riesce a dire meno, come quando si cerca di cogliere il “presente”, schiacciato tra passato e futuro. O meglio, quello che si dice è costantemente intessuto di nostalgia e di attesa, di rimpianto per quanto ci sta alle spalle e di timore per quanto ci attende. Non sono forse questi i sentimenti che hanno abitato il popolo di Israele durante uno dei viaggi più famosi dell’antichità, quell’esodo che è divenuto ben presto paradigma di ogni “uscita” dalla schiavitù verso la libertà, metafora di un ininterrotto viaggio interiore che attraversa l’aridità del deserto in direzione di una terra “promessa”? Così, nel nostro viaggio interiore, le soffocanti sicurezze di un tempo diventano miraggi che distolgono lo sguardo da possibilità nuove, da spazi aperti ma esigenti. Ansia dell’ignoto e nostalgia del già noto: è lo struggimento per un’assenza che ferisce il cuore con la sua presenza.
In viaggio come pellegrini e forestieri, inoltre, si attraversa non solo lo spazio, ma anche il tempo: si scopre la non contemporaneità delle diverse culture, si tocca con mano che, anche se il calendario indica la stessa data, i tempi restano diversi, a volte inconciliabili: differenze di approccio alla realtà, di costumi, di memoria storica, di tradizione. È in viaggio, prima ancora di fissare anche solo provvisoriamente una nuova dimora, che sperimentiamo quella che i padri del deserto chiamavano la xeniteia, l’essere xenos, straniero, senza nessuna protezione sociale, in balìa di leggi e costumi propri di altri, circondati da linguaggi e paesaggi sconosciuti. E in questa estraneità acquistano valore insospettabile anche i rapporti con i compagni di viaggio, che siano persone già conosciute con le quali abbiamo deciso di intraprendere il cammino, oppure pellegrini incontrati lungo la strada, là dove i nostri sentimenti sono più disarmati e predisposti al dialogo e all’apertura.
Così anche la strada verso un “santuario”, un luogo “santo” nel suo significato originario di “separato”, altro, diverso dal nostro quotidiano, è già preparazione a vivere in modo “altro” il tempo e lo spazio. Non vi è nulla di magico nelle “città sante”, niente che possa catturare od obbligare Dio, nessuna garanzia di possesso privilegiato, ma una capacità di evocare un evento, di richiamare l’uomo, di invitarlo a sollevare lo sguardo verso l’alto, di indicargli, attraverso il luogo dell’evento, colui che l’evento ha operato! Non a caso il pellegrinaggio rimane metafora della nostra stessa vita: un cammino aperto verso un futuro altro.
ENZO BIANCHI