Una notte al cimitero (Tremila – puntata tre)

5 settembre 2016

“Ma più ti avvicinerai all’ovest, meno facile ti sarà trovare paesi o città, potresti anche correre per più di 50 miglia senza trovare un albergo”.

Stavano arrivando le 7 di sera, e mi tornavano sempre più spesso in mente queste parole di Jim di qualche giorno prima. Ero in qualche modo preparato quindi a sfoderare il mio reparto notte, che normalmente sta in una sacca. Avevo abbastanza energia per ricaricare il Garmin e il telefono, avevo anche provviste e acqua. Avevo ormai superato i 90 km e mi guardavo con attenzione intorno per cercare il posto giusto. Paeselli, anche da 300 abitanti non ce n’erano, fattorie rare e dimesse, case abbandonate, nessuna; la strada neanche tanto trafficata.
A un certo punto sulla destra un piccolo colle, una piccola macchia di alberi a fianco di un prato ben rasato, mi sembra il posto ideale. Prendo la deviazione, la strada è sconnessa e ripida, scendo per spingere la bici gli ultimi 100 metri e arrivo ai piedi della radura: un bellissimo cimitero con quei piccoli monumenti funebri che da sotto, anche con l’erba come sempre rasata a puntino, non si vedevano.
cimitero1
Non ho mai dormito in un cimitero: alla stazione, al porto, in autogrill, in un parco, a scuola, in chiesa… credo di aver dormito ovunque, ma in cimitero, sono sicuro, mai.
Mi guardo intorno, si sente in lontananza il rumore della strada, si vede qualche kilometro in là le luci di due o tre fattorie distanti fra di loro. E respiro una pace potente mentre osservo il sole che declina dietro l’orizzonte che è la mia destinazione.
cimitero2Nascondo la bici e i bagagli dietro la macchia degli alberi e cauto faccio un giro a piedi.
Mi sembra quasi che i vari Pearce, Connor, Johnson, mi chiedano di stare con loro a fargli compagnia. Accetto.
Pianto la tenda finchè c’è ancora luce, mi faccio una doccia spray con il repellente per le zanzare, mi cambio, mangio seduto sulla panchina della famiglia Chamky e dopo cena, quando ormai solo le lucine votive indicavano l’esistenza di manufatti umani sotto quell’immenso cielo stellato che tutto avvolge nella notte della prateria, faccio un bel giro a salutare tutti.
Mi raccontano delle guerre, delle malattie, delle bestie e degli incidenti in campagna. Mi raccontano anche delle fatiche enormi che hanno fatto per stare su quella terra deserta ma ospitale, e mi raccontano di come gli bastassero le poche soddisfazioni di qualche affetto e dei figli e dei nipoti e del raccolto e delle rare feste, di molte birre e poco altro per dire che insomma… si! erano contenti della loro vita ed erano contenti di aver fatto la loro parte.
Mi dicono che anche per loro è la prima volta di un ciclopellegrino che si ferma a dormire, ma posso star tranquillo.

Mi lavo i denti e mi ritiro nei miei appartamenti: non so che ore sono, ho spento tutto per risparmiare energia, ma saranno le 9,30, 10 al massimo.
Dopo un po’ di tempo, non so forse un paio d’ore, stavo dormendo profondamente, quando all’improvviso sento un rumore di passi. Mi sveglio, resto immobile, sospendo il respiro e provo a capire cosa possa essere. Non so se sia un umano o un animale, però si distingue chiaramente il rumore del ghiaino calpestato dallo stormire delle foglie alla brezza notturna e dalle cicale dai grilli che cantano le loro serenate.
Continuo a restare fermo e zitto, anche i passi si fermano. Dopo un po’ riprendono, si allontanano, allora apro la tenda. Il rumore della cerniera sembra un fragore in quel silenzio notturno, rinforzo i decibel schiarendo la gola e tossendo, esco, cauto ma pronto, non so a che cosa, ma ero pronto, ma non trovo niente e nessuno. Non si sente neanche più il rumore della strada, né si vedono le luci delle case in lontananza.
Io sento di essere abbracciato dal maestoso e infinito cielo stellato, i miei amici silenziosi e fermi dalle loro lucine votive.

Torno a dormire, finchè il sole, con la sua rotonda certezza e il suo calore che cresce con lui, manda via tutti i miei compagni di quella notte, le stelle, i sogni, i desideri, le paure, le speranze, la consolazione dell’umana vicenda che mi ha mostrato la sua continuità.
Riprendo la mia corsa verso ovest.
3000 - 13

E’ domenica, secondo i miei appunti. Dopo 20 km arrivo in un paesino, Dow City, Iowa, seicento abitanti, dove mi fermo per fare colazione nell’unico locale. Trovo dei simpaticoni che fanno la pausa caffè. Sono farmers, lavorano 7 giorni alla settimana, e chiacchierano volentieri con questo strano ciclista con tanti bagagli. Faccio con loro il punto sulla cartina, capisco che sono molto vicino alla metà del mio viaggio e questa cosa mi dà tanta soddisfazione.
Riparto e la strada si lascia percorrere nel suo continuo saliscendi, finchè dopo la pausa pranzo, verso il cinquantesimo chilometro la ruota posteriore si scentra. La apro, la richiudo e riparto. Ma dopo poco, al primo cambio si scentra di nuovo, e capisco che quello che aveva pronosticato Craig sta succedendo.
Infatti una delle viti del supporto inventato da Craig adesso ha un lasco di quasi mezzo centimetro. Smonto tutto e lo rimonto, lì in parte alla strada. Non passa nessuno, la bici è a ruote per aria ma alla fine ce la faccio a rimetterla in strada, ma il cambio non riesce più a lavorare bene.
Arrivo ad Onawa, Iowa, trovo un motel e mi fermo. Ho fatto 80 km. Gli ultimi trenta con il patema d’animo.
Dopo la doccia e la cena, quando l’umore è più costruttivo, studio la situazione, controllo la bici.
3000 - 14

Scrivo al concessionario in California che Jim mi aveva aiutato a trovare, è domenica sera. Spero che al lunedi quando arriverà in ufficio mi risponda. Dopo un paio d’ore mi scrive dicendo che lui è in ferie ma che ha già chiamato in Olanda dove nel frattempo è lunedi mattina.
Dopo un paio d’ore mi chiamano dall’Olanda, io stavo dormendo, non prendo il telefono in tempo, ma dopo poco mi arriva la mail in cui mi chiede un indirizzo a cui spedire il pezzo. Guardo la città più vicina, cerco se c’è un negozio di biciclette e me lo faccio spedire li.
Al mattino scrivo al negozio di biciclette, Cleveland Bike, a Norfolk, Nebraska, spiegandogli la situazione e chiedendogli di non respingere un pacchetto che arrivasse dall’Olanda, e che avrò bisogno del suo aiuto.
Dopo un’ora mi risponde così: “we can definitely help you out!”.
Rinfrancato da tutta questa collaborazione internazionale, mi rimetto in strada, speranzoso che il mio adattamento resista fino a Norfolk, 120 km. verso ovest.
Ci arrivo con un paio di colpi di brugola lungo la via; il motel più economico ha il cartello no vacancy sulla finestra, mi rifugio allora nel secondo della lista dei più economici.
Sono nel quartiere commerciale che c’è in tutte le città che hanno un’intersezione con una highway statale: i motel, le farmacie, i supermercati, i concessionari di auto, di attrezzature per giardino, le funeral home, i ristoranti delle catene in franchising, le animal clinic, insomma tutto ciò che in città non c’è quasi più. La downtown, che si potrebbe in qualche modo definire centro città, se queste città ne avessero uno, è una strada dove si affaccia ancora qualche negozio di vintage, qualche locale un po’ più caratteristico dei McDonald o dei Pizzahut, la public library, qualche ufficio di qualche organizzazione caritativa, la Chambre of Commerce e in questo fortunato caso, il mio amico della Cleveland Bike!

Ogni giorno guardo a che punto è la mia spedizione sul sito dello spedizioniere, ma come ho imparato bene, le distanze non si accorciano guardando i calendari, ma muovendosi, correndo verso la propria destinazione.
Se la tua destinazione però è dietro casa, ti può sembrare che il tuo correre sia simile a quello dei criceti dentro la gabbia, gira la ruota ma il poveretto è sempre allo stesso posto. E’ una sensazione che provo spesso anch’io quando sono a casa: correre tutto il giorno, affannarsi a rispettare scadenze, rispondere a urgenze, anticipare e risolvere problemi, ascoltare tutti e per tutto trovare una soluzione, insomma una gran ruota che gira dove mi sento un criceto che resta fermo.
Invece, quando non sai dove dormirai la sera, o dove ti alzerai al mattino, cosa mangerai e cosa berrai, chi incontrerai e cosa ti dirà, hai l’impressione di essere uscito dalla gabbia e di essere sceso dalla ruota, e di poter finalmente correre libero.
Ma chi può farlo? E chi può farlo, per quanto può farlo? È poi liberta o impressione di libertà? E se fosse libertà ma la vivi da solo è ancora libertà?
Insomma, avete capito che otto, dieci ore di bicicletta al giorno lasciano spazio a tante belle riflessioni, che poi quando ti fermi e ti metti a scriverle diventano una palla infinita per chi deve leggere.

Ma potete anche saltare dei pezzi.

A me piace vedere come queste riflessioni diventano atteggiamenti interiori di fronte alla realtà.
Allora se il pezzo di ricambio non arriva, e ogni sera torno allo stesso albergo dopo aver fatto almeno una cinquantina di chilometri per mantenere la gamba e il callo soprasella nella giusta tensione, non mi sento di nuovo il criceto nella gabbia? Con la preoccupazione in più che i chilometri non diminuiscono mentre il calendario si accorcia? E per di più con il senso del dovere che comincia a farsi sentire mentre tutti sono tornati al lavoro e io ancora qua in giro per il mondo a fare la bella vita?
Sì un bel criceto americano, che assomiglia ad uno scoiattolo, che sta imparando ad entrare e uscire dalla gabbia, si arrampica anche sugli alberi, guarda lontano, torna indietro, sta fermo, perché ha capito che quello che conta è cosa sente e cosa prova, non dove è e cosa fa.
E comincia a piacermi questa cosa, perché mi sembra più a portata di mano anche la libertà ovunque io mi trovi.
Arriverà, ripartirò, cambierò strada, userò anche il treno, andrò avanti, e tornerò, e quando mi sembrerà di essere un criceto, ripenserò agli scoiattoli che ho visto innumerevoli saltare da un albero all’altro!
cimitero4

2 Comments
  1. Ciao ciclopellegrino!! No non si può saltare bisogna leggere interamente il racconto! Mi Sembra di assaporare un po’ di quella libertà di cui fai cenno!!! buon proseguimento

Comments are closed.