prima di Santiago – Direzione sud: I padroni dei Passi

Sono belli i passi quando ci sei su; e sono tutti uguali nella loro essenza: il punto più alto di due strade che vanno su o giù a seconda dei punti di vista. Sembra banale questa cosa, ma non riesco ad immaginare che sia la stessa cosa per chi ci arriva in macchina o in  moto. Ecco, devo dire delle moto sui passi. Su ogni passo degno di questo nome, c’è un bar, una locanda, un ristorante, un posto di ristoro che permette ad ogni viandante di fermarsi, riposare, riprendere energie e forze per ripartire. Anch’io di solito mi fermo a mangiare sull’ultimo passo della giornata, lasciando per il pomeriggio le discese a valle. Così feci anche quella volta sulla Futa. Ciclisti pochi, tre o quattro veri con la bici da corsa, ed io unico con il bagaglio.

In qualche modo mal sopportato da quelli magri, eleganti, con bici tecnologiche e brillanti al sole, che non capiscono come si possa amare la bici e non vergognarsi di avere la pancetta e una bici che non sa cosa sia la galleria del vento. Tant’è.

Il vero padrone però, del passo, è il motociclista, anzi sono i motociclisti. Il motociclista da solo sta andando a lavorare. Se lo trovi sulle strade di montagna mentre piega su ogni tornante alla ricerca della giusta angolazione per godere della potenza che gioca e vince con la gravità, il motociclista è solo una parte di un gruppo. Più o meno numeroso, il gruppo occupa poi tutto lo spiazzo della locanda del passo. Occupa poi anche il vialetto d’ingresso alla locanda, anche i bagni, il giornale sul tavolo, insomma, il motociclista di montagna con il suo gruppo riempie ogni spazio. E c’è da capirli, la autocastrazione che esercita il motociclista per trarre godimento dal gioco gravitazionale per interposto telaio a motore, deve trovare poi uno sfogo, che è l’occupazione dello spazio vitale dei passi.

Non sono cattivi i motociclisti, anzi, quelli di montagna sono anche persone miti, paciose, accondiscendenti; si spostano subito se gli chiedi permesso, talvolta ti danno una mano anche a portare il bagaglio, ti tengono aperta la porta. Una volta sul Resia, una coppia mi ha rincorso per qualche km per portarmi un paio di guanti che avevo dimenticato al banco del bar.

Ma ho quest’idea che siano vittime di una autocastrazione. Mentre chi va in montagna a piedi o in bici, sente la fatica impossessarsi del suo corpo per esplodere in una soddisfazione indicibile quando arriva in alto e sopra c’è solo il cielo, mi pare che chi va in moto, o in macchina, ha il corpo che viene attrappito dal torpore e dalla noia e quando arriva in alto, implode in una serie di stiracchiamenti e sbadigli che la montagna da sotto i piedi, quasi, si mortifica.

Ecco, non me ne vogliano i motociclisti, posso capire il loro sbalordimento nel sentirsi definire vittime dell’autocastrazione, ma non saprei in che altro modo spiegare certe loro movenze e certe loro espressioni sullo spiazzo del passo. E dire che loro pensano di essere, come centauri potenti dominatori delle curve e dei dossi, delle buche, delle erte salite, dei tornanti e delle ripide discese. Ma in realtà loro sono solo conducenti più o meno esperti di uno strumento meccanico che ha un motore endogeno. Loro sono controllori di una forza esterna, non producono nulla, anche se hanno l’impressione nel gioco delle angolazioni di essere produttori di energia. Ma quando l’energia si rivela nel pieno del suo splendore nel panorama che si vede sulla sommità chi non ha prodotto energia, ma l’ha consumata, arrivando in vetta sente su di se la frustrazione inevitabile di non essere parte del tutto, e soffre nell’autocastrazione anticiclica al momento.

Come le so queste cose? Sono stato motociclista anch’io.

Non sono un pentito, anzi, sono orgoglioso di esserlo stato. Ho sempre sognato di avere almeno un motorino. Ho pianto inutilmente due giorni sotto le finestre di mia mamma perché mi permettesse di comprarmi una vespa a sedici anni!

Poi un giorno, quando facevo il militare come carabiniere ausiliario vengo assegnato al XIII° battaglione Friuli Venezia Giulia a Gorizia, compagnia Mortai da 120. Siamo tutti sulla piazza d’armi i 100 nuovi arrivati, e vengono scelti i gruppi per le diverse specializzazioni. Prima i piloti di carro armato, poi gli autisti dei camion, poi quelli dei mezzi blindati, poi i manutentori, poi i cuochi, poi quelli dello spaccio, poi quelli del comando, poi quelli dello sport, poi quelli della cultura, insomma siamo rimasti in dieci e ci guardiamo in faccia mentre arriva un brigadiere e dice ”voi siete i motociclisti, non mi interessa cosa già sapete, vi insegno io” E così fu. In poche settimane avevamo imparato anche i caroselli con le gambe alzate con il vecchio falcone 500 della Guzzi. Ero orgoglioso della mia moto, la trattavo bene, a casa sbeffeggiavo la mia povera mamma che l’Arma aveva capito i miei talenti al contrario di lei povera donna apprensiva! Scortavamo i carri armati Leopard e i veicoli blindati M106 o M113 sui poligoni di tiro in mezzo alle montagne del Carso Giuliano. Facevamo fuoristrada e torrenti senza paura, tanto il falcone andava dappertutto. Piano naturalmente, ma con tanta potenza sotto il culo, che sembrava ce l’avessimo anche noi.

Ero così orgoglioso del mio nuovo mestiere di carabiniere motociclista che mi lasciai prendere la mano una volta.

Vicchio (Fi) - Faenza (Ra)

Vicchio (Fi) – Faenza (Ra)

Eravamo appena usciti dalla città verso la periferia, il brigadiere fa da capopattuglia davanti alla colonna dei veicoli blindati, apre la strada ed invita le auto che vengono in senso contrario a rallentare e tenere la destra. Dopo 4 o 5 blindati c’è il collega in mezzo che ripete l’avvertimento e in fondo, dopo altri 4 o 5 blindati io chiudo la colonna impedendo di fatto che chi ci seguiva sorpassasse. Guardo avanti e vedo un vecchio col cappello su una fiat 128 verde, con moglie a fianco e suocera o simil-suocera dietro che a finestrino abbassato tiene il centro della strada e manda a quel paese platealmente la colonna, il mio capo, il mio collega e tutto l’esercito e lo stato Italiano, e quando mi arriva vicino strombazza anche il clacson per l’esultanza di vedere la fine della colonna. Non ci ho visto più. Ho girato la moto, ho attaccato la sirena, ho dato gas e con la ripresa del falcone sono partito all’inseguimento della 128 verde. Non avevo la radio per comunicare a nessuno la situazione, d’altra parte non avrei saputo cosa dire, ero troppo preso dall’inseguimento che si concluse di fatto solo 4 o 5 km più avanti. Il vecchio col cappello accostò docilmente spaventato più dalla suocera che dalla sirena probabilmente, e io non sapendo cosa dirgli, annotai in sua presenza sul tesserino sanitario il numero di targa promettendogli chissà quali conseguenze per la mancanza di rispetto verso l’Arma dei Carabinieri. E tornai lesto al mio posto in fondo alla colonna.

Quando arrivammo dopo poco al poligono di tiro, si aprirono le cateratte delle bestemmie  degli insulti con cui il brigadiere mi seppellì: “cretino, deficiente e mona dove casso sito ndà, chi xe che te ga dito de tacare ea sirena, quanti casso de tiivision gheto vardà insemenio, ma proprio no te capissi gnente, te mando a Peschiera pa violata consegna, procurato allarme, e dopo te dago anca do peade sui coioni…” Si capisce che la difesa dell’onore dell’Arma non era la priorità in quel momento.

Per dire che capisco la gioia della moto.